martedì 25 agosto 2015

Leggende e folklore del borgo di Gromo: tra streghe, briganti ed anime vaganti

Viaggiando per la Val Seriana, nel bergamasco, può capitare d'imbattersi in questo borgo, posto su un'altura dominante il fiume Serio. Proprio quest'altura potrebbe dare il nome a quello che è annoverato tra i Borghi più belli d'Italia: la parola latina grumus sta infatti ad indicare l'altura, la collina. Qui, tra le macchie boscose, tra frassini, faggi, noccioli e querce, sopravvivono secolari alberi di noce il cui mallo viene tradizionalmente raccolto la notte di San Giovanni: si tramanda di generazione in generazione che i malli debbano essere 21 per ottenere il gustoso nocino. 

Furono forse i Grumi, antico popolo celtico, i primi a colonizzare questo borgo. Certo è che solo grazie ai Romani Gromo iniziò a splendere d'una luce propria, in particolare con lo sviluppo dell'estrazione mineraria, dapprima del ferro e in seguito, dell'argento. I giacimenti si rivelarono più che preziosi anche in futuro, tanto che tra metà Quattrocento e fine Settecento - nel periodo in cui il borgo, assieme alla provincia bergamasca, venne annesso alla Repubblica di Venezia - le officine del luogo iniziatono ad esportare in tutta Europa la armi qui prodotte in grande copia.

Per le vie del borgo ancora si racconta della leggenda del Rusì, il brigante dalla fulva capigliatura noto in tutta la valle per le sue bravate, la sua invulnerabilità alle armi da fuoco e la sua rapidità nella fuga. Inseguito sia dalle autorità che dai paesani, s'arrampicava sulle case e correva sui tetti con la medesima agilità di un gatto. Sebbene alcune fonti lo vogliano originario di Zogno, pare che l'uomo vivesse in un'abitazione al centro del borgo sotto la quale si districavano sotterranei e gallerie sconosciuti ai più, terminanti nei fitti boschi sulla riva opposta del Serio. Non era un cattivo brigante: come un Robin Hood nostrano, egli rubava ai ricchi per donare ai poveri. Ed aveva un cuore, certamente, ma l'amore gli risultò fatale. Innamoratosi di una giovane pastorella, la quale non ricambiava tale sentimento, decise di rapirla e rinchiuderla nei sotterranei delle miniere: impossibile fuggire se non grazie ad un piccolo prodigio. Pianse così tanto la giovane che le lacrime, cadendo, andarono a formare un rigagnolo capace di guidarla fino all'uscita della miniera. Immediatamente corse dalle autorità, alle quali svelò non solo il nascondiglio del Rusì, ma anche il motivo per cui questi non veniva minimamente scalfito dalle armi da fuoco. Il brigante venne catturato, ma la leggenda continua tutt'ora ad esser ricordata poichè proprio a Rusì sono dedicati diversi eventi che da qualche anno rallegrano la borgata.

Anche a Gromo, come in tutta la Valle Seriana, si annovera la presenza di streghe, donne dedite alla raccolta ed alla conoscenza delle piante medicinali e spesso allontanate in malo modo dalla società per timore ed ignoranza. Alcune di queste streghe usavano raccogliere la vescia (lycoperdon perlatum), un fungo che cresce in prevalenza in queste zone e che contiene una sostanza polverulenta chiamata chigada de volp (sterco di volpe): tale polvere veniva da esse sparsa al vento, sulla terra, in modo da provocare le tempeste. 

In quest'atmosfera al di fuori del tempo sopravvivono tradizioni suggestive come la processione notturna del Venerdì Santo: al suono della marcia funebre i partecipanti, ognuno recante un lume acceso, accompagnano la statua del Cristo morto fino a Piazza Dante, al cui centro sta la fontana di marmo bianco sormontata da un cigno - simbolo dello stemma comunale attribuito al borgo dalla Repubblica di Venezia. Nel frattempo tra i prati e sui pendii circostanti vengono accesi piccoli fuochi con stracci imbevuti di grasso ed olio o con segatura e resina, disposti in modo da riprodurre simboli inerenti alla ricorrenza quali ad esempio la croce, la scritta IHS o la Scala Santa.
In questa giornata è usanza preparare - e mangiare - la maiassa, una torta di mele, fichi e cipolle cotta al forno e condita con olio. E', questo, un dolce tipico dell'intera zona bergamasca del quale esistono però diverse varianti.

Nel libro "Usi, costumi e tradizioni bergamasche" di Luigi Volpi scopriamo che negli anni Trenta del secolo scorso continuava a persistere una interessante usanza matrimoniale: dopo la cerimonia, la sposa tornava per sette giorni alla casa paterna. L'usanza era chiamata caraù o roertaria ed era un notevole segno di emancipazione derivante con ogni probabilità dalle antiche tradizioni romane.  

All'incirca nello stesso periodo storico - parliamo, quindi, della prima metà del Novecento - occorse in paese un fatto curioso. Un anziano si recò a ritirare la propria pensione e decise di fermarsi all'osteria, prima di rincasare. Tra una chiacchiera ed un bicchier di vino il tempo trascorse velocemente: era ormai buio quando l'uomo decise di salutare gli amici ed avviarsi verso casa, ignaro che, nel buio, due loschi individui lo attendevano per sorprenderlo e derubarlo. Non fecero però in tempo ad avvicinarsi che all'improvviso due figure ancor più irriconoscibili spuntarono dal nulla, proprio di fianco all'anziano: i due ladri, impauriti, fuggirono di gran carriera. La scena fu vista da alcuni degli amici dell'osteria i quali, il giorno seguente, chiesero al vecchietto chi fossero le persone che la sera prima l'avevano riaccompagnato a casa. Stupito fu, però, l'uomo che di nulla s'era accorto e, oltretutto, dichiarava di non esser stato accompagnato da chicchessia. Si dice che quelle due figura, allora, altro non fossero che due anime mandate sulla terra in quel preciso momento proprio per proteggerlo. 

Ad oggi il borgo rivive dell'antico splendore medievale attraverso rievocazioni storiche e manifestazioni musicali e teatrali. Per saperne di più: www.gromo.eu

© Monica Taddia
Foto: Pro Loco Gromo

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